2 aprile 2006
Il primo ecomostro di Punta Perotti, presso Bari, è stato abbattuto: davanti a una folla di centinaia di persone, gli esperti hanno innescato le mille cariche necessarie per fare accartocciare l'edificio.
L'esplosione non è stata preceduta dalle tre sirene che avrebbero dovuto avvertire dell'esplosione, sorprendendo i baresi che si erano assiepati per assistere all'evento. Adesso il lungomare di Bari "ritorna" più visibile, e lo sarà ancora di più quando verranno distrutte anche le due rimanenti parti della costruzione, che varranno fatte implodere il 23 e il 24 aprile.
Unico lieve "contrattempo" è stata la nuvola di calcinacci prodotta dallo "sparo", che, contro le previsioni, si è diretta verso la terra e non verso il mare, travolgendo l'abitato quartiere Japigia.
mercoledì 26 maggio 2010
domenica 23 maggio 2010
Andrea Palladio (1508-1580)
Figlio del mugnaio Pietro della Gondola e di Marta detta "la zota", Andrea nasce a Padova nel 1508. Nella città del Santo egli compie le sue prime esperienze come scalpellino nella bottega di Bartolomeo Cavazza da Sossano, che sembra avergli posto condizioni particolarmente dure. Nel 1524, infatti, dopo un primo tentativo fallito, riesce a fuggire a Vicenza: qui entra nella bottega di Pedemuro San Biagio, tenuta da Giovanni di Giacomo da Porlezza e Girolamo Pittoni da Lumignano, a quell'epoca scultori molto famosi a Vicenza. Tra il 1535 e il 1538 avviene l'incontro che cambierà radicalmente la sua vita: mentre lavora nel cantiere della villa suburbana di Cricoli conosce Giangiorgio Trissino, poeta e umanista, che lo prenderà sotto la sua protezione. Sarà proprio lui a soprannominarlo Palladio, a guidarlo nella sua formazione culturale improntata soprattutto sullo studio dei classici, a condurlo, infine, più volte a Roma. Qui Andrea si trova per la prima volta a contatto con le architetture che aveva imparato ad amare, può osservare dal vivo i monumenti imperiali, ammirandone la bellezza e studiandone i materiali, le tecniche costruttive, i rapporti spaziali. Ma i viaggi col suo mecenate significano anche l'incontro con i "grandi" del tempo: Michelangelo, Sebastiano Serlio, Giulio Romano, Bramante. Intorno al 1540 inizia intanto la sua attività autonoma di architetto, con opere come il Palazzo Civena a Ponte Furo (Vicenza) e la villa Godi a Lonedo, mentre nel 1549 si situa l'episodio che lo consacrerà definitivamente: la ricostruzione delle Logge della Basilica di Vicenza in sostituzione di quelle quattrocentesche. Il progetto del Palladio ha la meglio su una concorrenza decisamente agguerrita (erano stati fra gli altri consultati Serlio, Sansovino, Sanmicheli, Giulio Romano). Da allora le nobili famiglie vicentine e veneziane si contenderanno l'attività del Palladio. Inizia così il periodo più intenso dell'attività palladiana, che si concretizzerà in opere di assoluta bellezza, dal palazzo Chiericati alla villa Barbaro di Maser, dalla "Malcontenta" a Mira alle chiese veneziane del Redentore e di S. Giorgio Maggiore, fino alla notissima Rotonda. Nel 1570, inoltre, Palladio pubblica il trattato I quattro libri dell'architettura, espressione della sua cultura, dei suoi ideali ed anche della sua concreta esperienza. Negli anni '70 è a Venezia in qualità di "proto", cioè consulente architettonico, della Serenissima. Tra febbraio e marzo del 1580 vengono intanto avviati i lavori per la costruzione del teatro Olimpico, edificato su richiesta degli Accademici Olimpici (lo stesso Andrea era stato nel 1556 socio fondatore) per la recitazione della tragedia classica. Tuttavia, prima che l'opera sia completata il Palladio si spegne il 19 agosto 1580.
Fonte:http://ville.inews.it/palladio.htm
sabato 22 maggio 2010
Doccione
Il doccione è la parte finale del tubo o canale di scarico esterno di una grondaia, spesso decorato con figure mostruose o fantastiche che dovevano spaventare gli "spiriti maligni" e tenerli lontani dall'edificio.
Ha lo scopo di canalizzare il deflusso dell'acqua piovana accumulata nelle gronde o sui tetti impedendo che questa, scorrendo lungo i muri li danneggi o penetri nelle fondazioni.Furono molto utilizzati nel corso del Medioevo; si ritrovano spesso all'esterno di municipi, chiese e cattedrali dell'epoca in forma di leoni o altri animali; l'acqua scorre spesso lungo la schiena o all'interno della figura per defluire poi dalla bocca.L'epoca in cui si raggiunse il maggior utilizzo di doccioni inizia a partire dal XIII secolo. Nel corso del tempo divennero sempre più elaborati: inizialmente veniva scolpito solo il busto dell'animale o della creatura fantastica, in seguito si scolpì l'animale intero, spesso avvinghiato con gli artigli all'edificio. Dalla metà del XIII secolo furono utilizzati in modo sistematico e verso la fine del secolo si cominciò a fare uso di caricature e figure grottesche. I doccioni sono stati resi famosi nei seguenti ambiti:
alla Tv, con la serie di cartoni animati "Gargoyles" (200-2001);
al cinema, nel film "Il gobbo di Notre Dame", con Charles Laughton nella parte di Quasimodo; "Batman", con Jack Nicholson nella parte di Joker; "Armageddon", con Bruce Willis, nella scena della distruzione di Parigi da parte del meteorite;
nei fumetti Marvel, Gargoyle è un criminale nemico di Thor che appare nei numeri 75 -76 della prima serie di fumetti del 1974-1975.
Gargolla
La gargolla (dal francese, o gargoyle dall'inglese) è la traduzione letteraria del termine doccione che in italiano rappresenta la parte terminale dello scarico dei canali di gronda (erroneamente comunemente chiamati grondaie) e dà il nome alla figura iconografica che si vede scolpita in molte Cattedrali cristiane medioevali. Il vocabolo deriva dal latino gurgulium, termine onomatopeico collegato al gorgoglìo dell'acqua che passa attraverso un doccione. Quest'ultimo venne in seguito trasformato nel francese gargouille con lo stesso significato, accolto in lingua inglese con il termine gargoyle.
Dal punto di vista architettonico una gargolla ha in genere la funzione di doccione, cioè è la parte terminale di un sistema di scarico per l'acqua piovana che si protende da un cornicione o da un tetto, con lo scopo di far defluire l'acqua lontano dai muri. A partire dal X-XI secolo iniziò a diffondersi in Europa l'utilizzo della pietra per il doccione. La spiritualità visionaria medioevale creò gargolle di ogni sorta, da figure demoniache a facce gioconde, fino a creature metà uomini e metà bestie. La simbologia delle gargolle è complessa e attinge dalle Sacre Scritture e dall'universo pagano. Il retaggio delle creature ibride greche e egiziane si mischiò nel medioevo all'universo mitico dei bestiari come il Physiologus, libri illustrati con descrizioni di animali fantastici di terre lontane. Gli artisti influenzati da tali testi scolpirono dei doccioni bestiali e affascinanti. Le caratteristiche degli animali immaginari furono reinterpretate in chiave cristiana. Alcuni studiosi hanno teorizzato che le gargolle siano state utilizzate come guardiani delle chiese per tenere lontano i demoni. Altri pensano che questi doccioni simboleggiassero demoni, da cui i passanti avrebbero trovato scampo in chiesa.
Una leggenda francese parla di un drago chiamato Grand'Goule, che possedeva ali e corpo da rettile; viveva in una caverna nei pressi della Senna e si placava soltanto con offerte sacrificali annuali. Intorno al 600 giunse a Rouen un sacerdote di nome Romanus (futuro arcivescovo di Rouen e santo), che promise di liberare il paese dal drago in cambio della conversione di tutti i cittadini e la costruzione di una chiesa. Romanus sottomise il mostro con il segno della croce ed esorcizzandolo, e lo portò fuori dal paese legato a un guinzaglio fatto con la sua tonaca. Gargouille fu bruciato su un rogo, ma il collo e la testa non bruciarono e vennero perciò staccati dal corpo e posti sulle mura di Rouen, divenendo così il modello per le gargolle.
Fonte:Wikipedia
Fabio Polenghi, fotoreporter italiano ucciso
Ucciso il fotografo Fabio Polenghi.
L’esercito Thailandese ha effettuato un assalto contro l’accampamento delle camicie rosse.
Tra le vittime di quest’attacco c’è stato anche il fotografo italiano Fabio Polenghi che è stato colpito da due proiettili all’addome. Era nel paese da tre mesi per conto di una rivista italiana e seguiva l’evoluzione della situazione.
Dagli amici e colleghi viene definito come un fotografo in gamba che si aveva sempre la sicurezza di trovare nei luoghi in cui c’era qualcosa di importante da seguire.
Fonte:clickblog
Istituto Belzoni Padova
Istituto Tecnico per Geometri
Itg Belzoni
Via S.Speroni 39-41
35100 Padova PD
Corso serale di:
PDTL010004 Itg Belzoni - Padova
http://www.belzoniboaga.it/
http://belzoni-serale.blogspot.com/
Giovanni Battista Belzoni
Giovanni Battista Belzoni (Padova, 15 novembre 1778 – Nigeria, 3 dicembre 1823) è stato un esploratore e pioniere dell'archeologia italiano. È considerato una delle prime figure dell'egittologia.
Biografia
Giovanni Battista Belzoni nacque a Padova nel 1778. Per evitare la coscrizione nell'esercito napoleonico nel 1803 si rifugiò in Inghilterra, dove visse sfruttando la sua notevole stazza (era alto due metri) e la sua forza erculea lavorando come artista in un circo, dove faceva l'"uomo forzuto" con il nome di "Patagonian Samson" ("Sansone Patagonico"); caricatosi sulle spalle una specie di giogo, arrivava a sostenere da solo una piramide umana costituita da un'intera famiglia di dodici persone.
Dopo una serie di viaggi in Europa e a Malta giunse in Egitto dove, sfruttando le sue nozioni di meccanica e idraulica che aveva utilizzato per esigenze scenografiche, costruì una pompa idraulica di sua invenzione con la speranza di riuscire a venderla al pascià Mohammed Ali, ma il suo progetto fallì. Come ripiego per guadagnarsi da vivere, si incaricò dunque, su commissione del britannico Henry Salt, di trasportare dal Ramesseum (nella piana di Deir el-Bahari) al Nilo la gigantesca statua di Ramesse II (12 tonnellate), portando miracolosamente a termine l'impresa, in sole due settimane, con mezzi di fortuna. Belzoni pose la sua firma dietro un orecchio della testa del colosso.
Cominciò così, approfittando anche di un'assoluta mancanza di regole, la sua carriera di archeologo, che lo rese famoso in tutto il mondo, ma non ricco. Giova ricordare che all'epoca l'Egitto era percorso non da veri archeologi, ma piuttosto da avventurieri con pochi scrupoli al soldo dei maggiori musei europei o più spesso di collezionisti privati, che razziavano i pezzi (soprattutto i preziosi) in combutta con i tombaroli e le autorità locali. Rispetto a molti di questi avventurieri europei, che non si facevano alcuno scrupolo di usare gli esplosivi pur di penetrare nelle tombe, Belzoni si distinse nel tempo per le sue eccezionali scoperte.
In pochi anni percorse in lungo e in largo l'Egitto, risalendo il fiume Nilo fino ad Assuan, scoprendo sotto la sabbia il tempio di Abu Simbel; scoprì la città di Berenice, esplorò la Valle dei Re scoprendo la tomba di Seti I, una delle più belle della valle e che è oggi nota anche con il nome di "Tomba Belzoni", che aprì sfondandone la parete con un ariete formato da un tronco di palma. Trasportò a Londra migliaia di reperti, fra cui un colossale obelisco che servì poi a Champollion (1822) per verificare la sua decifrazione dei geroglifici. Dalla tomba di Seti I, inoltre, egli riportò a Londra il sarcofago in alabastro translucido del re che offrì al British Museum per 2000 sterline. Il museo rifiutò l'offerta, così scatenando anche le ire dell'opinione pubblica, ed il sarcofago venne acquistato dall'architetto John Soane (che lo fece installare nella "cripta" della sua abitazione-museo ove, ancora oggi, si trova).
Tra le molte scoperte vi fu quella, nel 1818, dell'ingresso della piramide di Chefren, la seconda per altezza dopo la Piramide di Cheope. Dacché troppo spesso altri si erano appropriati delle sue scoperte, lasciò la sua vistosissima firma all'interno della camera sepolcrale («Scoperta da G. Belzoni, 2 marzo 1818»).
La sua firma può essere trovata anche accanto ad un piede della statua in granito nero di Amenofi e su un altare proveniente dal tempio di Montu, a Karnak. Si era guadagnato il rispetto delle popolazioni locali, non solo a causa del suo carattere e della sua forza, ma anche per la considerazione che aveva per gli usi e costumi locali, dato che amava indossare abiti e barba di foggia araba.
Tornato in Inghilterra nel 1819, scrisse e pubblicò le sue memorie, dove descriveva tutte le sue grandi scoperte archeologiche. Morì di dissenteria nel 1823 in Nigeria[1], nei pressi della città di Timbuctu, mentre stava partecipando ad una spedizione alla ricerca delle favolose sorgenti del Nilo.
Influenza culturale
Nonostante le sue numerosissime e importanti scoperte per conto soprattutto dell'Inghilterra, il suo nome è stato ricordato solo da pochi libri, anche se sui reperti custoditi nel British Museum di Londra appare la sua firma.
Il celebre personaggio di Indiana Jones fu ispirato al suo creatore George Lucas principalmente dalla figura di Belzoni: un archeologo eccezionale ma dotato di un carattere forte e rude.
Una città del Mississippi porta il suo nome.
Fonte:Wikipedia
giovedì 20 maggio 2010
Per non dimenticare
TG 31.10.09 Sette anni fa la tragedia di San Giuliano
Il giudizio di colpevolezza è stato confermato dalla quarta sezione penale della Corte di Cassazione: i cinque imputati per il crollo della scuola elementare di San Giuliano di Puglia sono effettivamente colpevoli di quel disastro, in cui morirono 27 bambini ed una maestra. Il reato si perpetrò in un’unica azione, ossia quella di costruire la sopraelevazione della scuola in maniera non conforme alle norme, della legge e della fisica. Un solaio appesantito da 16 tonnellate di calcestruzzo, venuto giù a causa del terremoto di fine 2002. Se si fosse costruito secondo le regole antisismiche – si legge nella sentenza – tutto ciò certamente non sarebbe successo.
I genitori e i parenti delle vittime di quella tragedia si dicono soddisfatti, anche se difficilmente nei loro volti e nelle loro menti potrà soggiornare soddisfazione vera, nè essi potranno avere ristoro dal torto impagabile subito quasi 8 anni fa.
La verità che oggi la giustizia afferma è principalmente quella della colpevolezza dei vari imputati, in quanto soltanto uno di loro, l’ex sindaco di San Giuliano che pure in quel crollo perse sua figlia, ha ricevuto una condanna definitiva: 2 anni e 11 mesi, seppur coperti dall’indulto. Per gli altri quattro imputati, il progettista della scuola e gli altri responsabili della sopraelevazione che fu funesta, la Cassazione ha rimandato il giudizio alla Corte d’Appello di Salerno, per un difetto di motivazione che, per ora, impedisce l’effettiva quantificazione della pena da infliggere.
E’ una vicenda nazionale che termina, una brutta storia cui si pone fine nel modo meno peggiore che si possa. Quantomeno ci sono delle condanne, dei responsabili che rappresentano un “mai più” da portare nel futuro della gestione delle opere pubbliche, al Sud e in tutta Italia. Se quella scuola è crollata e quei bambini sono morti, è colpa dell’abusivismo, del mancato rispetto delle regole che sono prima di vita e poi di legge. Perchè la legge, in questo caso, può davvero salvarci la vita.
di Simone Aversano
Il giudizio di colpevolezza è stato confermato dalla quarta sezione penale della Corte di Cassazione: i cinque imputati per il crollo della scuola elementare di San Giuliano di Puglia sono effettivamente colpevoli di quel disastro, in cui morirono 27 bambini ed una maestra. Il reato si perpetrò in un’unica azione, ossia quella di costruire la sopraelevazione della scuola in maniera non conforme alle norme, della legge e della fisica. Un solaio appesantito da 16 tonnellate di calcestruzzo, venuto giù a causa del terremoto di fine 2002. Se si fosse costruito secondo le regole antisismiche – si legge nella sentenza – tutto ciò certamente non sarebbe successo.
I genitori e i parenti delle vittime di quella tragedia si dicono soddisfatti, anche se difficilmente nei loro volti e nelle loro menti potrà soggiornare soddisfazione vera, nè essi potranno avere ristoro dal torto impagabile subito quasi 8 anni fa.
La verità che oggi la giustizia afferma è principalmente quella della colpevolezza dei vari imputati, in quanto soltanto uno di loro, l’ex sindaco di San Giuliano che pure in quel crollo perse sua figlia, ha ricevuto una condanna definitiva: 2 anni e 11 mesi, seppur coperti dall’indulto. Per gli altri quattro imputati, il progettista della scuola e gli altri responsabili della sopraelevazione che fu funesta, la Cassazione ha rimandato il giudizio alla Corte d’Appello di Salerno, per un difetto di motivazione che, per ora, impedisce l’effettiva quantificazione della pena da infliggere.
E’ una vicenda nazionale che termina, una brutta storia cui si pone fine nel modo meno peggiore che si possa. Quantomeno ci sono delle condanne, dei responsabili che rappresentano un “mai più” da portare nel futuro della gestione delle opere pubbliche, al Sud e in tutta Italia. Se quella scuola è crollata e quei bambini sono morti, è colpa dell’abusivismo, del mancato rispetto delle regole che sono prima di vita e poi di legge. Perchè la legge, in questo caso, può davvero salvarci la vita.
di Simone Aversano
L'Ora” di Palermo: Quando c'era l'informazione indipendente
Il L’Ora”, così lo chiamavano i palermitani, era un quotidiano indipendente della sera
Dalle pagine de "L’Ora”
Fu fondato nell’Aprile del 1900 dalla famiglia Florio, capofila di una nuova borghesia illuminata ed antiproibizionistica, che in esso aveva trovato il proprio organo d’informazione. Aveva poi attraversato il Fascismo, facendo viva opposizione, fino a quando aveva potuto. La sua stagione di gloria ebbe inizio nel dopoguerra, quando la Sicilia tornò a rinascere, con l’autonomia regionale, la riforma agraria, la tentata industrializzazione. Giornale dichiaratamente di sinistra, l’editore era il Partito Comunista Italiano, “L’Ora” si fece interprete di questo spirito di rinnovamento, scegliendo di schierarsi contro la faccia negativa di quello stesso rinnovamento: la nuova Mafia, il clientelismo, la nascita di nuovi potentati economici che basavano le proprie risorse sulla spesa regionale. Non fu un’operazione semplice e la testata pagò a caro prezzo la sua perseveranza nel denunciare piccoli e grandi scandali di una società corrotta e di una politica collusa, non soltanto in termini di querele, che a decine e decine arrivavano in redazione a seguito delle coraggiose inchieste che quotidianamente venivano pubblicate, ma anche in termini di sacrifici umani: “L’Ora” è il quotidiano che nella storia della stampa italiana annovera il più alto numero di giornalisti uccisi dalla mafia: Mauro De Mauro, Cosimo Cristina e Giovanni Spampinato.
Il quotidiano di Palermo ha rappresentato un’informazione di frontiera, che attraverso le inchieste, i servizi, l’indagine, si è battuta contro i poteri occulti, specie quelli mafiosi, facendo del giornalismo uno strumento di lotta politica.
La stagione più importante de “L’Ora” è legata al nome di Vittorio Nisticò, direttore del quotidiano palermitano nel ventennio che va dal 1954 al 1975, un giornalista attentissimo e autorevolissimo, che fece guadagnare alla testata prestigio nazionale. In questo arco di tempo sono stati tanti gli avvenimenti politici e di cronaca puntualmente registrati dal quotidiano d’opposizione: dal “milazzismo” (l’operazione politica che estromise la DC dal governo della Regione) all’uccisione del procuratore capo Pietro Scaglione, dal “sacco” edilizio dei Lima e dei Ciancimino al sisma del Belice.
Quando nel 1958 uscì la sua prima grande inchiesta sulla mafia, di questo fenomeno cruento e inquinatore della politica nessun media faceva cenno, giungendo pure a negarne l’esistenza. E scrivere questa parola, a chiare lettere, sulle pagine del giornale, provocò la reazione di Cosa Nostra, che collocò una bomba tra la redazione e la tipografia. La risposta del quotidiano fu altrettanto chiara : “La mafia ci minaccia, l’inchiesta continua”; vennero ripubblicate in un inserto anche tutte le puntate precedenti. Questo episodio portò il Presidente della Repubblica Saragat a dichiarare che “ci voleva questo attentato per capire che la mafia c’è”, dando vita alla commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia, che poi, malgrado i tentativi di opposizione al disegno di legge istitutivo, da parte di deputati e senatori della Democrazia Cristiana, che la reputarono “inutile, offensiva e incostituzionale”, diventò permanente.
Insomma, “L’Ora” di Nisticò ha avuto anche questo merito, quello cioè di portare a conoscenza dell’intera nazione che la mafia in Sicilia c’era, ma che c’erano anche siciliani disposti a combatterla.
Ma “L’Ora” non fu solo questo: la redazione palermitana è stata anche un centro di cultura e di aggregazione intellettuale; basti pensare non solo a Leonardo Sciascia, ma anche a Michele Perriera, Gioacchino Lanza Tomasi, Danilo Dolci, Giuliana Saladino, Vincenzo Consolo, “scoperti” e apprezzati da Nisticò prima che diventassero gli autori che oggi conosciamo, e che arricchivano il giornale di tutti quei temi leggeri, ma non futili, che riguardavano il mondo dell’arte e del costume. Accanto a queste “penne” vi erano anche i “pennelli” di Renato Guttuso e le “matite” di Bruno Caruso, che spesso illustravano i fatti di cronaca più importanti.
“L’Ora” non esiste più, ma la sua lezione di giornalismo continua ad essere presente, attraverso molte “firme” sui più autorevoli quotidiani nazionali, di giovani cresciuti nel “laboratorio” giornalistico siciliano, come l’attuale direttore de “La Stampa” di Torino, Marcello Sorgi, che ha scritto di come a caratterizzare l’identità del quotidiano era “il mix di politici, intellettuali, artisti e scrittori che si affacciavano nel pomeriggio…”.
Dell’ultima generazione di cronisti, formatisi nella redazione del quotidiano siciliano, ricordiamo Gianni Riotta, Attilio Bolzoni, Antonio Calabrò, Alberto Stabile, e Francesco La Licata, solo per citare alcuni tra quelli più conosciuti.
Ed è con orgoglio che, ricordando l’esperienza de “L’Ora”, La Licata, giornalista esperto di storia della mafia, incontrato a Roma proprio in occasione di questa mia ricerca, mi dice come l’appartenenza a quel giornale “non era questione di essere militanti; negli anni ’70 essere contro la mafia era un dovere”. E l’adesione al partito comunista, voleva dire schierarsi contro il potere, soprattutto contro il potere mafioso.
Erano gli anni in cui la Democrazia Cristiana spadroneggiava e dove a Palermo “la parola d’ordine nei confronti del giornale d’opposizione era ostracismo”, come ricorda il cronista - poeta Mario Farinella. “Fu in quell’atmosfera e a dispetto di quell’atmosfera che Leonardo Sciascia cominciò a scrivere per “L’Ora”. Era l’inizio di una collaborazione che doveva durare per più di trent’anni, sino a qualche ora prima della morte”.
Sulle pagine del quotidiano del 3 aprile 1965, a chi gli chiedeva il perché di una così convinta consuetudine con “L’Ora”, Sciascia rispondeva scrivendo: “L’Ora sarà magari un giornale comunista, ma è certo che mi dà modo d’esprimere quello che penso con una libertà che difficilmente troverei in altri giornali italiani. In quanto al mio essere di sinistra, indubbiamente lo sono: e senza sfumature”.
A proporre allo scrittore una collaborazione regolare fu, all’inizio del 1955, l’allora neodirettore Vittorio Nisticò su indicazione di Gino Cortese, l’intellettuale comunista nisseno, che tanto aveva saputo influire sul giovane Sciascia nella sua presa di coscienza antifascista. Brancati era appena morto e sarà lo scrittore racalmutese a prendere il suo posto, scrivendo di tutto, note critiche, ma anche riflessioni culturali, politiche, inchieste e reportage.
Riguardo alla data del primo articolo pubblicato da Sciascia esistono delle fonti discordanti tra loro, tranne che per l’anno di pubblicazione che resta il 1955. Così Matteo Collura, nel “Maestro di Regalpetra”, riferisce quella del 23 febbraio, dove Sciascia dedica una nota letteraria al poeta dialettale catanese del Settecento, Domenico Tempio; mentre nella raccolta “Quaderno” di Leonardo Sciascia, pubblicata dalla Nuova Editrice Meridionale nella collana “Dalle pagine de L’Ora”, l’Editore riferisce dello stesso articolo, ma con la data del 25 febbraio. C’è poi la testimonianza di Vittorio Nisticò che sposta la data al 24 marzo: si tratta ancora di una nota letteraria, ma su un libro di Vittorio Fiore, Ero nato sui mari del tonno.
Di certo, dunque, il 1955 segna l’inizio della carriera giornalistica di Sciascia, ancora praticamente sconosciuto (solo un anno dopo avrebbe pubblicato Le Parrocchie di Regalpetra) e segna anche l’inizio di un amichevole rapporto tra lo scrittore e il direttore del quotidiano siciliano.
Vittorio Nisticò in un libro recentemente pubblicato da Sellerio, dove ripercorre i suoi venti anni di direttore al “L’Ora” di Palermo, ricorda così la nascita di questo duraturo e proficuo rapporto: “Per conoscerlo e concordare la collaborazione ero andato a trovarlo in una sua casetta di campagna nei pressi di Racalmuto, in compagnia di un comune amico, Gino Cortese, deputato comunista al parlamento siciliano”. La presenza di Sciascia in redazione era sempre molto discreta e rispecchiava la personalità sobria e riservata dello scrittore, che pareva “quasi timoroso di infastidire”. Scrive ancora Nisticò: “Sciascia era per tutti noi – da me al cronista più giovane – uno di casa: sempre pronto ad intervenire anche nella cronaca diretta o nel fuoco delle polemiche, con le sue riflessioni stringenti e in più di un caso le sue ire, e sempre con un rispetto puntiglioso della puntualità. Insomma facendo alto giornalismo. E questo me lo rendeva, ce lo rendeva particolarmente vicino”. Sarà per il giornale palermitano che lo scrittore, a poche ore dalla morte, dettò quello che può considerarsi la sua ultima riflessione pubblica, ovvero la prefazione, richiestagli da tempo, per il volumetto di scritti di Borgese apparso poi nella collana.
Fonte:http://invisibil.blogspot.co
Dalle pagine de "L’Ora”
Fu fondato nell’Aprile del 1900 dalla famiglia Florio, capofila di una nuova borghesia illuminata ed antiproibizionistica, che in esso aveva trovato il proprio organo d’informazione. Aveva poi attraversato il Fascismo, facendo viva opposizione, fino a quando aveva potuto. La sua stagione di gloria ebbe inizio nel dopoguerra, quando la Sicilia tornò a rinascere, con l’autonomia regionale, la riforma agraria, la tentata industrializzazione. Giornale dichiaratamente di sinistra, l’editore era il Partito Comunista Italiano, “L’Ora” si fece interprete di questo spirito di rinnovamento, scegliendo di schierarsi contro la faccia negativa di quello stesso rinnovamento: la nuova Mafia, il clientelismo, la nascita di nuovi potentati economici che basavano le proprie risorse sulla spesa regionale. Non fu un’operazione semplice e la testata pagò a caro prezzo la sua perseveranza nel denunciare piccoli e grandi scandali di una società corrotta e di una politica collusa, non soltanto in termini di querele, che a decine e decine arrivavano in redazione a seguito delle coraggiose inchieste che quotidianamente venivano pubblicate, ma anche in termini di sacrifici umani: “L’Ora” è il quotidiano che nella storia della stampa italiana annovera il più alto numero di giornalisti uccisi dalla mafia: Mauro De Mauro, Cosimo Cristina e Giovanni Spampinato.
Il quotidiano di Palermo ha rappresentato un’informazione di frontiera, che attraverso le inchieste, i servizi, l’indagine, si è battuta contro i poteri occulti, specie quelli mafiosi, facendo del giornalismo uno strumento di lotta politica.
La stagione più importante de “L’Ora” è legata al nome di Vittorio Nisticò, direttore del quotidiano palermitano nel ventennio che va dal 1954 al 1975, un giornalista attentissimo e autorevolissimo, che fece guadagnare alla testata prestigio nazionale. In questo arco di tempo sono stati tanti gli avvenimenti politici e di cronaca puntualmente registrati dal quotidiano d’opposizione: dal “milazzismo” (l’operazione politica che estromise la DC dal governo della Regione) all’uccisione del procuratore capo Pietro Scaglione, dal “sacco” edilizio dei Lima e dei Ciancimino al sisma del Belice.
Quando nel 1958 uscì la sua prima grande inchiesta sulla mafia, di questo fenomeno cruento e inquinatore della politica nessun media faceva cenno, giungendo pure a negarne l’esistenza. E scrivere questa parola, a chiare lettere, sulle pagine del giornale, provocò la reazione di Cosa Nostra, che collocò una bomba tra la redazione e la tipografia. La risposta del quotidiano fu altrettanto chiara : “La mafia ci minaccia, l’inchiesta continua”; vennero ripubblicate in un inserto anche tutte le puntate precedenti. Questo episodio portò il Presidente della Repubblica Saragat a dichiarare che “ci voleva questo attentato per capire che la mafia c’è”, dando vita alla commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia, che poi, malgrado i tentativi di opposizione al disegno di legge istitutivo, da parte di deputati e senatori della Democrazia Cristiana, che la reputarono “inutile, offensiva e incostituzionale”, diventò permanente.
Insomma, “L’Ora” di Nisticò ha avuto anche questo merito, quello cioè di portare a conoscenza dell’intera nazione che la mafia in Sicilia c’era, ma che c’erano anche siciliani disposti a combatterla.
Ma “L’Ora” non fu solo questo: la redazione palermitana è stata anche un centro di cultura e di aggregazione intellettuale; basti pensare non solo a Leonardo Sciascia, ma anche a Michele Perriera, Gioacchino Lanza Tomasi, Danilo Dolci, Giuliana Saladino, Vincenzo Consolo, “scoperti” e apprezzati da Nisticò prima che diventassero gli autori che oggi conosciamo, e che arricchivano il giornale di tutti quei temi leggeri, ma non futili, che riguardavano il mondo dell’arte e del costume. Accanto a queste “penne” vi erano anche i “pennelli” di Renato Guttuso e le “matite” di Bruno Caruso, che spesso illustravano i fatti di cronaca più importanti.
“L’Ora” non esiste più, ma la sua lezione di giornalismo continua ad essere presente, attraverso molte “firme” sui più autorevoli quotidiani nazionali, di giovani cresciuti nel “laboratorio” giornalistico siciliano, come l’attuale direttore de “La Stampa” di Torino, Marcello Sorgi, che ha scritto di come a caratterizzare l’identità del quotidiano era “il mix di politici, intellettuali, artisti e scrittori che si affacciavano nel pomeriggio…”.
Dell’ultima generazione di cronisti, formatisi nella redazione del quotidiano siciliano, ricordiamo Gianni Riotta, Attilio Bolzoni, Antonio Calabrò, Alberto Stabile, e Francesco La Licata, solo per citare alcuni tra quelli più conosciuti.
Ed è con orgoglio che, ricordando l’esperienza de “L’Ora”, La Licata, giornalista esperto di storia della mafia, incontrato a Roma proprio in occasione di questa mia ricerca, mi dice come l’appartenenza a quel giornale “non era questione di essere militanti; negli anni ’70 essere contro la mafia era un dovere”. E l’adesione al partito comunista, voleva dire schierarsi contro il potere, soprattutto contro il potere mafioso.
Erano gli anni in cui la Democrazia Cristiana spadroneggiava e dove a Palermo “la parola d’ordine nei confronti del giornale d’opposizione era ostracismo”, come ricorda il cronista - poeta Mario Farinella. “Fu in quell’atmosfera e a dispetto di quell’atmosfera che Leonardo Sciascia cominciò a scrivere per “L’Ora”. Era l’inizio di una collaborazione che doveva durare per più di trent’anni, sino a qualche ora prima della morte”.
Sulle pagine del quotidiano del 3 aprile 1965, a chi gli chiedeva il perché di una così convinta consuetudine con “L’Ora”, Sciascia rispondeva scrivendo: “L’Ora sarà magari un giornale comunista, ma è certo che mi dà modo d’esprimere quello che penso con una libertà che difficilmente troverei in altri giornali italiani. In quanto al mio essere di sinistra, indubbiamente lo sono: e senza sfumature”.
A proporre allo scrittore una collaborazione regolare fu, all’inizio del 1955, l’allora neodirettore Vittorio Nisticò su indicazione di Gino Cortese, l’intellettuale comunista nisseno, che tanto aveva saputo influire sul giovane Sciascia nella sua presa di coscienza antifascista. Brancati era appena morto e sarà lo scrittore racalmutese a prendere il suo posto, scrivendo di tutto, note critiche, ma anche riflessioni culturali, politiche, inchieste e reportage.
Riguardo alla data del primo articolo pubblicato da Sciascia esistono delle fonti discordanti tra loro, tranne che per l’anno di pubblicazione che resta il 1955. Così Matteo Collura, nel “Maestro di Regalpetra”, riferisce quella del 23 febbraio, dove Sciascia dedica una nota letteraria al poeta dialettale catanese del Settecento, Domenico Tempio; mentre nella raccolta “Quaderno” di Leonardo Sciascia, pubblicata dalla Nuova Editrice Meridionale nella collana “Dalle pagine de L’Ora”, l’Editore riferisce dello stesso articolo, ma con la data del 25 febbraio. C’è poi la testimonianza di Vittorio Nisticò che sposta la data al 24 marzo: si tratta ancora di una nota letteraria, ma su un libro di Vittorio Fiore, Ero nato sui mari del tonno.
Di certo, dunque, il 1955 segna l’inizio della carriera giornalistica di Sciascia, ancora praticamente sconosciuto (solo un anno dopo avrebbe pubblicato Le Parrocchie di Regalpetra) e segna anche l’inizio di un amichevole rapporto tra lo scrittore e il direttore del quotidiano siciliano.
Vittorio Nisticò in un libro recentemente pubblicato da Sellerio, dove ripercorre i suoi venti anni di direttore al “L’Ora” di Palermo, ricorda così la nascita di questo duraturo e proficuo rapporto: “Per conoscerlo e concordare la collaborazione ero andato a trovarlo in una sua casetta di campagna nei pressi di Racalmuto, in compagnia di un comune amico, Gino Cortese, deputato comunista al parlamento siciliano”. La presenza di Sciascia in redazione era sempre molto discreta e rispecchiava la personalità sobria e riservata dello scrittore, che pareva “quasi timoroso di infastidire”. Scrive ancora Nisticò: “Sciascia era per tutti noi – da me al cronista più giovane – uno di casa: sempre pronto ad intervenire anche nella cronaca diretta o nel fuoco delle polemiche, con le sue riflessioni stringenti e in più di un caso le sue ire, e sempre con un rispetto puntiglioso della puntualità. Insomma facendo alto giornalismo. E questo me lo rendeva, ce lo rendeva particolarmente vicino”. Sarà per il giornale palermitano che lo scrittore, a poche ore dalla morte, dettò quello che può considerarsi la sua ultima riflessione pubblica, ovvero la prefazione, richiestagli da tempo, per il volumetto di scritti di Borgese apparso poi nella collana.
Fonte:http://invisibil.blogspot.co
Un anno dopo il sisma il film inchiesta esce al cinema
ROMA. Sangue e cemento: un anno dopo il terremoto del 6 aprile, arriva nelle sale italiane in 40 copie e in quelle digitali del circuito Microcinema con un'inchiesta choc secondo la quale non è stata la calamità naturale ad uccidere 299 persone, ma piuttosto un intreccio di burocrazia, malaffare, speculazioni che hanno dissestato il territorio e ridotto L'Aquila in macerie, pur con scosse inferiori a quelle registrate nello stesso periodo, per esempio in Giappone.
Distribuito da Iris Film di Christian Lelli, è un'inchiesta di Franco Fracassi e del Gruppo Zero con Paolo Calabresi, che è anche la voce narrante e una produzione di Editori Riuniti, Telemaco e lo stesso Gruppo Zero, un collettivo di giornalisti e cineasti che aveva esordito con 'Zero, inchiesta sull'11 settembré.
Con lo stesso titolo, il film-inchiesta era uscito per Editori Riuniti in un cofanetto con l'omonimo saggio di Marco Travaglio illustrato da Vauro Senesi, pubblicato il 7 luglio 2009, un giorno prima del G8 dell'Aquila e oggetto di accesi dibattiti dopo la presentazione in varie tendopoli.
Il film racconta «cause recenti e responsabilità remote di chi ha costruito male per risparmiare sul materiale e sulle tecniche, di chi doveva controllare, ma non lo ha fatto, agli amministratori che hanno favorito la speculazione a discapito della sicurezza dei cittadini».
Dal sindaco dell'Aquila al capo della Protezione Civile Guido Bertolaso, interviste a sismologi, geologi, tecnici del territorio e delle costruzioni, avvocati e giudici arricchiscono il film del Gruppo Zero di cui fanno parte tra gli altri Thomas Torelli, Giuseppe Reggio, Arianna Dell'Arti, Luca Cambi.
Gli autori nell'inchiesta pongono domande, a loro dire senza risposta, sul terremoto d'Abruzzo: «Perché L'Aquila non era inserita nella fascia 1 di pericolosità sismica? Perché non era stata disposta nessuna politica antisismica nel territorio abruzzese? Perché dopo l'inizio dello sciame sismico (ottobre 2008) non erano state disposte misure adeguate? Perché si consente di costruire nelle zone sismiche con materiali mescolati con troppa acqua, sabbia salata, ferro di cattive colate, insomma perché si costruiscono edifici destinati a crollare? Perché si tollerano le infiltrazioni della criminalità organizzata nell'edilizia delle zone sismiche? Perché le imprese che hanno costruito gli edifici crollati non vengono escluse dalla ricostruzione? Perché la ricostruzione viene gestita al riparo del controllo della popolazione?».
E infine, la domanda più importante: «Perché la notte del 6 aprile 2009 sono morte 299 persone?». Intanto sempre sul terremoto Sabina Guzzanti sta montando un film (ancora senza titolo) sulla ricostruzione e sulla gestione del post-sisma con testimonianze, video e commenti dei protagonisti. «Il film è serio - ha scritto la Guzzanti tre giorni fa sul suo blog che ospita ipotesi di titolo, tra cui Draquila - fa anche ridere ma anche piangere. Uno spirito troppo scherzoso non si addice a questa pellicola. Ci vuole un titolo che sia ironico ma forte adeguato agli argomenti».
E' invece pronto, e ha avuto un'anteprima a Los Angeles, Italia due settimane fa, Angelus Hiroshimae di Giancarlo Planta con Franco Nero.
Il film narra la vicenda misteriosa di un cacciatore in un'alba di nebbia a L'Aquila ed è stato realizzato prima del sisma. Cercando la preda, l'uomo (Nero) si accorge di aver colpito una strana creatura giapponese con ali. Si carica sulle spalle l'angelo, lo cura nella sua antica casa, ma forse tutto il racconto è solo un incubo perché il protagonista cerca nel rapporto con quel ragazzo di sanare l'intimo dolore per la perdita del figlio. Il film si avvale della colonna sonora di Morricone e del lavoro dell'art director Gianni Quaranta. Alla pellicola è abbinato anche un documentario in cui l'attore si muove tra i ruderi del sisma.
Fonte:www.primadanoi.it
Distribuito da Iris Film di Christian Lelli, è un'inchiesta di Franco Fracassi e del Gruppo Zero con Paolo Calabresi, che è anche la voce narrante e una produzione di Editori Riuniti, Telemaco e lo stesso Gruppo Zero, un collettivo di giornalisti e cineasti che aveva esordito con 'Zero, inchiesta sull'11 settembré.
Con lo stesso titolo, il film-inchiesta era uscito per Editori Riuniti in un cofanetto con l'omonimo saggio di Marco Travaglio illustrato da Vauro Senesi, pubblicato il 7 luglio 2009, un giorno prima del G8 dell'Aquila e oggetto di accesi dibattiti dopo la presentazione in varie tendopoli.
Il film racconta «cause recenti e responsabilità remote di chi ha costruito male per risparmiare sul materiale e sulle tecniche, di chi doveva controllare, ma non lo ha fatto, agli amministratori che hanno favorito la speculazione a discapito della sicurezza dei cittadini».
Dal sindaco dell'Aquila al capo della Protezione Civile Guido Bertolaso, interviste a sismologi, geologi, tecnici del territorio e delle costruzioni, avvocati e giudici arricchiscono il film del Gruppo Zero di cui fanno parte tra gli altri Thomas Torelli, Giuseppe Reggio, Arianna Dell'Arti, Luca Cambi.
Gli autori nell'inchiesta pongono domande, a loro dire senza risposta, sul terremoto d'Abruzzo: «Perché L'Aquila non era inserita nella fascia 1 di pericolosità sismica? Perché non era stata disposta nessuna politica antisismica nel territorio abruzzese? Perché dopo l'inizio dello sciame sismico (ottobre 2008) non erano state disposte misure adeguate? Perché si consente di costruire nelle zone sismiche con materiali mescolati con troppa acqua, sabbia salata, ferro di cattive colate, insomma perché si costruiscono edifici destinati a crollare? Perché si tollerano le infiltrazioni della criminalità organizzata nell'edilizia delle zone sismiche? Perché le imprese che hanno costruito gli edifici crollati non vengono escluse dalla ricostruzione? Perché la ricostruzione viene gestita al riparo del controllo della popolazione?».
E infine, la domanda più importante: «Perché la notte del 6 aprile 2009 sono morte 299 persone?». Intanto sempre sul terremoto Sabina Guzzanti sta montando un film (ancora senza titolo) sulla ricostruzione e sulla gestione del post-sisma con testimonianze, video e commenti dei protagonisti. «Il film è serio - ha scritto la Guzzanti tre giorni fa sul suo blog che ospita ipotesi di titolo, tra cui Draquila - fa anche ridere ma anche piangere. Uno spirito troppo scherzoso non si addice a questa pellicola. Ci vuole un titolo che sia ironico ma forte adeguato agli argomenti».
E' invece pronto, e ha avuto un'anteprima a Los Angeles, Italia due settimane fa, Angelus Hiroshimae di Giancarlo Planta con Franco Nero.
Il film narra la vicenda misteriosa di un cacciatore in un'alba di nebbia a L'Aquila ed è stato realizzato prima del sisma. Cercando la preda, l'uomo (Nero) si accorge di aver colpito una strana creatura giapponese con ali. Si carica sulle spalle l'angelo, lo cura nella sua antica casa, ma forse tutto il racconto è solo un incubo perché il protagonista cerca nel rapporto con quel ragazzo di sanare l'intimo dolore per la perdita del figlio. Il film si avvale della colonna sonora di Morricone e del lavoro dell'art director Gianni Quaranta. Alla pellicola è abbinato anche un documentario in cui l'attore si muove tra i ruderi del sisma.
Fonte:www.primadanoi.it
sabato 8 maggio 2010
sabato 1 maggio 2010
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